Liquori e Distillati

Whiskey • Rum • Grappe • Amari e Liquori • Armagnac • Cognac

Dal vino al liquore il passo è breve. Molto empiricamente e con tutto il rispetto per gli alambicchi, i filtri e le tecnologie richieste dalla complessa materia, i superalcolici stanno al vino come una normale automobile sta a una vettura di formula uno, una grand prix da cinquecento cavalli. Per condurre un bolide non bastano la patente e il cervello, occorre anche coraggio e conoscenza di certi limiti, oltre ai quali non si può andare, pena una uscita di pista. Con quel che segue.

Il superalcolico è, per paradossale definizione, l’esasperazione di una bevanda moderatamente alcolica come il vino. Per superalcolico intendiamo riferirci, in generale, a tutte quelle bevande, naturali o frutto di misture, come i cocktails, che traggono la loro origine dalla vite (cognac e brandy) o da altri prodotti della terra: dalla patata (vodka) alla bacca di ginepro (gin), dai cereali (whisky) alle ciliege (kirsch), alla canna da zucchero (rum). Anche se è improprio chiamare liquore un brandy o una grappa, useremo sempre questa generica definizione che la storia ci ha tramandato dopo la biblica sbronza di Noè – scopritore del vino – o l’invenzione del più celebre cocktail come il Negroni. Cominceremo col dire che un buon superalcolico rappresenta l’ingrediente ideale per iniziare o concludere un pranzo, per tirarsi su di morale quando se ne ha bisogno, per trascorrere un’allegra serata in casa o al night, a condizione che mai si trascenda o si faccia uso smodato di quella bevanda che, se presa in saggia dose, non fa male, anzi è benefica. In dose esagerata, invece, può condurre alla catastrofe. Come al volante di un’auto dai troppi cavalli, malamente controllati.

Elisir d’amore ai tempi della Belle Époque, filtro magico nel tenebroso Medio Evo, stimolatore degli eroi di Omero, il liquore accompagna momenti di esaltazione o di crisi dell’uomo, gli è amico e nemico. A dirla in termini correnti rappresenta un fenomeno di costume che raggiunge il suo apice ai tempi del proibizionismo, quando l’America degli anni Venti credette che un drastico divieto alla produzione e al consumo dell’alcool avrebbero scongiurato squilibri umani e sociali esplosi per altre cause.

Era la grande stagione del jazz e delle «maschiette », quelle ragazze che « indossavano, come scrisse Fernanda Pivano nella prefazione all’edizione italiana de “l’Età del jazz” di Francis Scott Fitzgerald, le più lucide delle loro calze di rayon color carne, il più lucido dei loro abiti di seta senza maniche, si fissavano la cintura sui fianchi snelli, si coprivano il viso di cosmetici vistosi, si aggiustavano i bobs, le zazzere corte, si mettevano in bocca un lungo bocchino e andavano a far scandalo in qualche speak-easy».

Fitzgerald, lo scrittore americano, che fu l’idolo di tutta un’epoca, dice che la parola jazz «nella sua marcia verso la rispettabilità ha significato prima sessualità, poi danze, infine musica. È associata a uno stato di eccitazione nervosa, non dissimile da quello delle grandi città poste nelle immediate retrovie del fronte … perciò mangiamo, beviamo e stiamo allegri perché domani saremo morti’ .. già a sedici anni le maschiette conoscono il sapore del gin e del whisky di granoturco.

Tutti erano ora alla pari sulla linea di partenza. Via … ma la corsa non ebbe luogo. Qualcuno aveva commesso uno sbaglio e l’orgia più costosa della storia ebbe fine nel 1929, perché l’estrema fiducia che era il suo sostegno iniziale ricevette un enorme scossone e non ci volle molto tempo perché tutta la fragile struttura crollasse … ma oggi è facile moraleggiare ed era piacevole avere venticinque anni in un tempo così incerto e spensierato ». Quando venne votato il proibizionismo, nel 1920, ben trentatre stati dell’Unione lo avevano introdotto da molti anni. Esso non fu che un gesto postumo della vecchia America d’anteguerra e ottenne l’effetto opposto: tutti si sentirono paradossalmente invitati a consumare alcool nella maggiore quantità possibile. Lo fecero nei modi più impensati evadendo qualsiasi misura proibìzionistica.

A quei tempi, per esempio, l’alcool più facile da scovare era il gin.

Se whisky e cognac erano quasi introvabili, il gin si trovava dappertutto per la semplice ragione che si poteva fabbricarlo in casa, nel bagno. Con questa produzione familiare non si otteneva niente di straordinario, ma, con i tempi che correvano, era già qualcosa. Si comprava una dozzina di litri di alcool puro e lo si versava nella vasca da bagno. Vi si facevano poi macerare bacche di ginepro, grani di anice, bucce d’arancia, noccioline amare e cannella e tutte le spezie che passavano per la testa del casalingo produttore. Dopo due giorni si mescolava il tutto energicamente e dopo altri due giorni il gin era pronto, naturalmente dopo avere filtrato il liquido. Anche gli alcolici più blandi come la birra erano proibiti. Un famoso amaro italiano, quello che « fa sempre bene », messo alla porta, entrò dalla finestra, cioè venne venduto in farmacia come medicinale …

Whiskey

Whisky o whiskey? Non preoccupiamoci, non è un dubbio amletico e possiamo risolverlo molto facilmente. Prima di tutto, una precisazione: di whisky e whiskey ce ne sono diversi; conglobandoli arriviamo a definirne cinque tipi: Scotch, Bourbon, Rye, Canadian e lrish.

Il primo proviene dalla Scozia, il secondo e il terzo ci giungono dagli Stati Uniti, il quarto è tipico del Canada e il quinto è irlandese. Nei bar che abitualmente frequentiamo i tipi di whisky (o whiskey) possono essere questi, ma occorre conoscerli, occorre saperli distinguere e soprattutto soddisfare chi esprime delle preferenze (l’ospite, si sa, è sempre esigente). In questa introduzione vogliamo parlarvi di whisky (o whiskey) in generale. Più avanti vi raccontiamo la storia di ognuno. Le parole whisky e whiskey non indicano completamente la stessa cosa: whisky con la sola «y » finale e whiskey con la «ey» finale hanno diversa origine e anche diverso sapore. Whisky con la sola « y » proviene dalla Scozia e dal Canada, mentre whiskey con la « ey » dall’Irlanda e dagli Stati Uniti. Nonostante il diverso modo di essere scritti, hanno tutti un fattore in comune: derivano dall’antica parola celtica irlandese usquebaugh, oppure usigebeatha che significa «acqua di vita». Esistono prove che un liquore avente le caratteristiche del whisky fosse conosciuto dai cinesi prima dell’era cristiana, e nei secoli XII-XIII un liquore del genere veniva descritto da medici e alchimisti. Questi liquori venivano chiamati «acqua di vita» (donde acquavite) perché in genere si facevano bere come medicamenti, per ringiovanire i vecchi e allungare l’esistenza. I «quattro grandi» del whisky e whiskey sono lo Scotch, il Canadian, il Bourbon e l’lrish.

Lo Scotch Whisky; senza la pretesa di dire tutto sul whisky scozzese, proviamo a descrivere una piccola guida su quello che non si può ignorare di questo famoso prodotto. In effetti non è facile, perché molte cose del whisky scozzese non le sa nessuno. L’origine, per esempio: quasi sconosciuta, legata a leggende come un po’ per tutte le bevande alcoliche. È presumibile che le prime fabbricazioni, pur rudimentali, di whisky in Scozia siano state opera degli Irlandesi, sbarcati a Kintyre. Il più antico riferimento ufficiale degli archivi scozzesi risale al 1494. Sui registri erariali di quell’anno si trova infatti questa annotazione: «Consegnate a frate Iohn Cor, senza alcun dubbio ottimo buongustaio e bevitore, otto misure di malto con cui fabbricare acquavite. Il nome whisky, però, non compare ancora. Per trovare in un documento ufficiale il termine whisky bisogna arrivare sino alla fine del secolo XVIII. È il poeta Robert Burns che usa indifferentemente nei suoi scritti, per indicare sempre la stessa bevanda, tre parole: acquavite, usquebac, whisky. Si sa che ogni paese si è creato la propria bevanda alcolica con il materiale che aveva a portata di mano.

Gli scozzesi avevano, proprio appena fuori dell’uscio di casa, il bravo, vecchio orzo. Forse il processo di maltizzazione fu scoperto per caso (come, altrove, la fermentazione dell’uva): in un anno di cattivo raccolto ci si accorse del germogliare spontaneo del cereale. E anche per caso, molto probabilmente, ci si accorse che il malto poteva essere più facilmente macinato se prima lo si faceva seccare al sole o al calore del fuoco. E poiché in Scozia il fuoco lo si faceva con la torba, ecco che ci si rese conto che la torba dava un aroma particolarmente piacevole al prodotto. Così, in breve, cominciarono a fare il whisky in Scozia. E cominciarono quelli dell’estremo lembo occidentale. Poi ci si misero anche quelli del Nord (ecco che Glenlivet diviene ben presto un centro di attività produttiva).

E quando, nel 1784, venne promulgata la legge sulle licenze, dovunque, nelle strette valli dell’alta Scozia (nelle Highlanders), lavoravano alambicchi. Ma la fama del liquore già da un paio di secoli si era estesa anche In pianura e durante il regno di Enrico VIII la bevanda era ben conosciuta e apprezzata anche alla corte inglese. Il whisky, ricavato dagli antichi alambicchi, trasportato a dorso di cavallo attraverso i monti fino alle pianure, nei centri dove erano dislocati i mercati, divenne a poco a poco il prodotto di una industria che si inseriva in un posto importante dell’economia inglese. Ma i distillatori non trasferirono i loro impianti in pianura. Eppure qui si sarebbero trovati più vicini ai mercati di vendita del loro prodotto e di acquisto delle materie prime. Rimasero là, sui monti, dove nei secoli lontani il whisky era nato.

Perché? È presto detto: si è sempre avuto il timore che, cambiando località, materiali e metodi di lavorazione, si potessero produrre mutamenti anche nella qualità e nelle caratteristiche del prodotto finito. Il timore non era ingiustificato. La produzione del whisky scozzese è tuttora un’arte e non una scienza. Visitando le antiche distillerie delle verdi vallate della Scozia, in luoghi quasi sperduti, ci si rende conto di quanto affermiamo.

Il Bourbon Whiskey è senz’altro il whiskey più consumato tra tutte le bevande americane: tutti i poliziotti, nei romanzi gialli americani, ne consumano cospicue quantità. Puro, esso ha guadagnato un posto di prim’ordine fra tutti i tipi di whiskeys esistenti al mondo. Il nome «Bourbon» proviene dalla Bourbon County (nello Stato del Kentucky, come abbiamo visto all’inizio) ed il suo nome trae origine dalla nobile stirpe dei Borboni, famiglia di re famosi (Luigi XIV di Francia, Filippo V di Spagna, Carlo III d’Italia). Il «Bourbon» che si trova in circolazione è detto più propriamente «Straight Bourbon Whiskey». Il consumatore e anche l’esercente sono inclini a omettere la parola straight (puro), ma essa sta ad indicare la differenza fra i vari tipi di whiskeys. L’alcool estratto da qualsiasi tipo di cereale a una gradazione maggiore di 95° (190 proof) è chiamato alcool neutro, mentre l’alcool estratto da qualsiasi tipo di cereale a una gradazione minore di 95° può portare l’etichetta di «whiskey ». L’alcool estratto dal cereale a una gradazione non superiore agli 80° (160 proof) può essere chiamato Bourbon Whiskey (bisogna tuttavia tenere conto del fatto che almeno il 51% dei cereali sia grano); possiamo chiamarlo invece Rye Whiskey se il 51% dei cereali è segale e Corn Whiskey se l’80% dei cereali è granoturco. Le leggi americane hanno stabilito che un whiskey deve essere distillato a 80° o meno, prima che sia possibile distinguere se è un Bourbon o un Rye e prima che esso contenga tracce di un sapore distinguibile di grano o segale o di qualunque altro cereale. L’alcool estratto dal cereale, non superiore agli 80° e invecchiato in nuovi barili di quercia per non meno di due anni, può portare l’etichetta di Straight, cioè puro.

Il whiskey può essere, riassumendo, inoltre chiamato «Straight Bourbon Whiskey» se non meno del 51% del cereale è grano, « Straight Rye Whiskey » quando il 51% è cereale di segale, «Straight Wheat Whiskey » quando il 51% è frumento, e così via. I tre elementi che permettono ad un whiskey di avere sull’etichetta la scritta « straight» sono il grano, la gradazione e l’invecchiamento. Bisogna ricordare inoltre che lo « straight whiskey» deve essere invecchiato almeno due anni. Tuttavia pochissimi « straight whiskeys » hanno un invecchiamento inferiore ai quattro anni: la maggior parte delle varie qualità di whiskeys subiscono un invecchiamento dai sei ai dodici anni. È inoltre da tenere presente che lo «straight whiskey» è distillato ad una gradazione che si aggira sui 57° e mezzo (ma in Italia, per legge, non supera i 43°); difficilmente avviene che sia sugli 80°. Il 90% degli « straight whiskeys » comunemente consumati è «Straight Bourbon Whiskey », L’altro 2% è costituito da « Straight Rye Whiskey» e « Straight Corn Whiskey» che godono ancora di una certa popolarità in alcune località americane. È da tenere presente che nessuna delle disposizioni governative degli Stati Uniti impedisce a un distillatore di classificare il suo « Straight Bourbon Whiskey » soltanto con la dicitura « Whiskey ». Lo Straight Whiskey viene prodotto convertendo gli zuccheri del cereale in alcool per mezzo della fermentazione, e successivamente separando i tipi di liquido voluti, compreso l’alcool che proviene dall’impasto fermentato. Più bassa è la gradazione alla quale il liquido è distillato, più alta sarà la percentuale di sostanza contenuta, oltre all’alcool, nel distillato. Sono queste sostanze che stabiliscono i caratteristici gusti conosciuti a secondo dei casi come «Bourbon» o « Rye ». Dopo che il processo di distillazione è stato completato si eliminano dal whiskey tutti gli elementi indesiderati e contemporaneamente si raffinano e ammorbidiscono i congeneri. L’invecchiamento poi completa entrambi gli obbiettivi. La produzione del whiskey si ottiene mediante un processo naturale dall’inizio alla fine. Il distillatore provvede alle caldaie, ai serbatoi, ai contenitori, ai controlli e agli strumenti. Nel processo di trasformazione, da cereale a bevanda finita, il whiskey passa attraverso quattro fasi spesso definite come the four unknowns (i quattro sconosciuti): mescolamento, fermentazione, distillazione, invecchiamento.

Canadian Whisky. Spingiamoci più a nord. Dagli Stati Uniti passiamo in Canada. «Il Canadian Whisky è un prodotto tipico del Canada ». Questa frase, anche se può sembrare ovvia, apre la definizione che negli Stati Uniti si dà del whisky canadese e in otto parole sintetizza abbastanza chiaramente la storia di questo prodotto. La più antica industria canadese era limitata alla macinatura del grano, ma già nel 1800 quasi ogni mugnaio aveva la sua distilleria adiacente al mulino e nel 1860 il «Canadian Whisky» guadagnava importanza non solo negli Stati Uniti, ma anche sui mercati mondiali. Geograficamente situata a nord del fiume San Lorenzo, l’industria canadese della distillazione crebbe in un relativo isolamento, molto lontana dai centri di whiskies scozzesi e americani, e come risultato sviluppò un proprio processo unico nella produzione di whisky. Essendo il canadese un popolo di origine britannica e francese è logico che la produzione combinasse le tradizioni degli «Highlands» scozzesi (zone montagnose dove «nasce» il miglior Scotch Whisky) con la regione francese di Cognac, e ciò spiega in parte l’unicità del suo whisky. In ogni caso i canadesi lo fecero senz’altro in modo diverso (e ancora lo fanno), con il risultato che quando gli Stati Uniti diedero la definizione dei whiskies dopo il proibizionismo, il Canadian Whisky venne così descritto: « … un caratteristico prodotto del Canada in armonia con le leggi di questo Paese il quale regola la produzione del whisky per il consumo del Canada e che non contiene alcolici distillati meno vecchi di due anni; premesso che tale prodotto così preparato è una miscela di alcolici distillati, tale whisky si chiama Blénded Canadian Whisky». Il Canadian Whisky non potrà mai essere definito straight, cioè puro. I canadesi intervennero nella stesura di tale definizione e furono loro stessi a dare il termine di blend al prodotto (anche se questo viene ora preparato in modo differente dai blended whiskeys americani. Qual è dunque la grande differenza? Che cosa distingue il Canadian Whisky dagli altri whiskies? Per ragioni a noi sconosciute, i propagandatori del Canadian supposero che il prodotto venisse distillato da una mistura di frumento e grani di segale.

Che allora fosse così non possiamo smentirlo. Rimane il fatto che ai nostri giorni il «Canadian Whisky» non si ottiene più in questo modo. Il grano usato per fare il Canadian Whisky è ora principalmente quello di grano turco (proveniente per la maggior parte dagli Stati Uniti). La segale canadese, l’orzo e una piccola quantità di frumento vengono usati dall’industria, e poiché questi tipi di grano sono stati selezionati per resistere ai rigori del clima canadese, sono leggermente diversi e contribuiscono in un certo grado a distinguere i whiskies canadesi. Ma naturalmente le differenze maggiori si trovano nel processo di produzione impiegato, e nelle caratteristiche e proprietà dell’acqua canadese. Infatti le miscele canadesi non sono il risultato di aggiunta di whisky puro e alcolici neutri come può succedere negli Stati Uniti.

Gli alcolici canadesi, più leggeri, distillati a 1850° proof sarebbero legalmente definiti «whisky» (piuttosto che alcolici neutri) negli Stati Uniti. Questi whiskies leggeri, invecchiati con altri più forti, sono miscelati subito dopo la distillazione e stagionati insieme in botti di quercia, nuove, prodotte in Canada o negli Stati Uniti, o in botti che hanno in precedenza contenuto già del whiskey, cioè usate, importate dagli Stati Uniti. Generalmente un « Canadian Whisky» ha almeno quattro anni d’invecchiamento, ma in effetti pochi whiskies canadesi hanno meno di sei anni e i vecchi Canadian di otto o dodici anni fanno vedere chiaramente e con orgoglio la loro età. Generalmente si preferisce bere questo whisky in bevande miscelate e numerosi classici cocktails lo contemplano.

Irish Whiskey. Il Whiskey irlandese, Irish Whiskey, ha una sua secolare storia di grandezza. È impossibile dire quando sia stato distillato per la prima volta, ma le cronache parlano del 500 d.C. Poi la distillazione del whiskey fu introdotta in Inghilterra dai soldati di Enrico II, dopo la prima invasione dell’Irlanda avvenuta nel 1170. Alcuni antichissimi manoscritti parlano della bontà dell’Irish Whiskey, della sua «unicità» e proprietà. All’epoca in cui furono compilati questi manoscritti il whiskey irlandese era già una tradizione. All’origine, come per tutti, era chiamato Uisge Beatha (si pronuncia « ische baha») in lingua irlandese.

Gli inglesi, nel 1197, ne abbreviarono il nome a Uisce, poi a Fuisce e infine whiskey. Nel diciottesimo secolo, la fama del whiskey irlandese aveva già varcato remoti confini, giungendo fino in Russia dove Pietro il Grande, dimentico della « sua» vodka, pare che lo definisse così: «Di tutti i liquori, il whiskey irlandese è il migliore ». Ma veniamo ai giorni nostri. Nel 1966, John Jameson & Son, Cork Distillers Co., Iohn Power & Son e Tullamore Dew Company, le maggiori distillerie di whiskey irlandese, si fusero in un’unica società dal nome «Irish Distillers Limited». Ciascuna di queste distillerie ha una propria antica e gloriosa tradizione e da svariate generazioni i loro nomi rappresentano uno dei tanti aspetti dello spirito nazionale irlandese. Sotto la comune denominazione di Irish Distillers Ltd., esse mantengono le proprie tradizioni di continuità e individualità. La secolare bravura ed esperienza dei maestri irlandesi della distillazione svolge oggi, come sempre, un ruolo di primaria importanza. Visitando una distilleria si ha l’impressione che nulla sia cambiato in tanti secoli. E questa impressione è in parte giustificata. Malgrado l’impiego di sistemi tecnologicamente avanzati c’è un’atmosfera che ha un ineffabile sapore di antico.

L’Irish Whiskey è frutto di lunghi anni di sapiente e meticolosa preparazione. I procedimenti per la produzione sono rimasti immutati. L’unica materia prima usata è l’orzo coltivato in Irlanda e precisamente una mistura di orzo germogliato e non germogliato. Germogliato vuol dire che l’orzo è sottoposto a determinate condizioni che ricordano molto la primavera. Questo fenomeno è chiamato, in termini tecnici, fooling dell’orzo. La giusta mistura di orzo germogliato e orzo non germogliato è tenuta in enormi vasche chiamate tuns e lasciata macerare in acqua. A vedere questo miscuglio, dall’aspetto poco gradevole, vien da pensare a una sottile poltiglia di colore chiaro. Il liquido che se ne ricava – che va sotto il nome di «mosto» – viene fermentato per ventiquattro ore diventando così una specie di «birra» molto forte. È questo l’inizio della fermentazione. Questa «birra» o wash è poi bollita negli enormi alambìcchi di rame e i vapori prodotti vengono raffreddati e «raccolti». Questo procedimento è ripetuto tre volte consecutive finché il liquido iniziale si ridurrà a un decimo del volume iniziale. Nessun altro whisky è prodotto per triplice distillazione ed è proprio questo sistema che ha dato al whiskey irlandese quell’impronta tradizionale. Il prodotto finale che si ottiene è un alcool puro e limpido che viene conservato in vecchi barili di quercia. Questi barili sono gli stessi che in precedenza contenevano Sherry, Rum, Bourbon Whiskey, altri whiskey americani o vecchi whiskey irlandesi. È così che il whiskey in maturazione si impregna di vecchi sapori che gli conferiscono quella ben nota sottile distinzione. L’alcool ottenuto è lasciato stagionare per svariati anni in questi barili immagazzinati in cantine a volta; solo così potrà acquistare quel gusto e quella maturità richiesti.

Il ruolo degli assaggiatori ha una vitale importanza: la loro esperienza è la migliore garanzia di qualità. Come dice un proverbio irlandese, «per fare il whiskey ci vogliono sette giorni della vita di un uomo e sette anni della vita di un whiskey». Sette anni, il tempo minimo impiegato per stagionare un Irish Whiskey.

Rum

Fra i distillati similari per la preparazione di validi cocktails ed una estesa gamma di long drinks, il rum offre ampie possibilità di impiego tanto che la sua duttilità cede appena al popolarissimo gin. In Europa, e da noi in particolar modo, l’uso dei rum e la loro divulgazione nei cocktails e nelle varie miscele sta avendo successo, soprattutto durante i periodi estivi. Ancora in anni recenti le citazioni pratiche per il rum erano in gran maggioranza raccolte nella obbligata presenza in fumanti «punch» invernali frettolosamente preparati. Evidentemente poca o nulla era la conoscenza generale su questo distillato che, per contro, rivela le sue proprietà migliori quando è appropriatamente impiegato. Basta perciò riferirsi agli usi specifici dei rum nei luoghi d’origine per conoscere la loro tipica funzionalità. Tutta la corona Caraibica e le varie zone produttrici della canna da zucchero costituiscono le fonti naturali del rum.

Dalle peculiari caratteristiche che differenziano i procedimenti di macerazione e fermentazione e dall’uso diretto della canna da zucchero o delle melasse, secondo le tipiche tradizioni dei differenti luoghi, hanno trovato origine le quattro classi in cui è possibile raggruppare tutta la produzione mondiale.

L’ammodernamento dei complessi produttivi ha trasformato le originali lavorazioni indigene, ma ha ben salvaguardato la tipicità dei prodotti. Sicché restano ben valide le differenze fra i rum dei diversi Paesi e, volendone fare uso appropriato, è quanto mai necessaria la conoscenza delle differenze che caratterizzano i vari tipi di rum. Va infine ricordato che, oltre ai rum originali, imbottigliati nei paesi di produzione, giungono in Europa i barili contenenti rum condensati, che vengono opportunamente portati al giusto grado alcolico e imbottigliati. Suddividendoli in categorie in base alla provenienza, proviamo a vederne qualcuna.

Cubani e Giamaicani; in questa categoria vanno compresi i rum cubani e quelli attualmente prodotti a Porto Rico ed in Messico con similari caratteristiche. Possono trovarsi in due tipi che trovano distinzione in Carta Bianca e Carta de Oro, Il primo essendo più secco, di colorazione lievissima meglio si presta per l’uso nei cocktails. E’ questo il tipo che ha reso universalmente famosi i cocktails Bacardi e Daiquiri. Il tipo Carta de Oro è il più indicato per long drinks.

Nella categoria comprendente i tipici rum della Giamaica o Jamaica, possono trovare appartenenza anche i rum Demerara della Guaiana inglese.

Seguendo un processo fermentativo più lungo, questi rum acquistano corpo più consistente e vengono portati a colorazione molto più intensa dei tipici Carta de Oro. La loro consistenza aromatica è quella che esprime con maggiore precisione il carattere del rum. Nei cocktails trovano la più affermata formula nel ben noto Planter, ma più diffusi sono nei long drinks.

Rum Caraibici; categoria raggruppante i prodotti nel comprensorio caraibico e zone limitrofe. Fra questi trovano marcata distinzione quelli prodotti ad Haiti, nelle isole Barbados, nelle isole Vergini, in San Domingo, nella Martinica. Le caratteristiche di questi rum vanno dalle asprezze di alcuni supersecchi della Martinica alle vellutate rispondenze degli stravecchi haìtiani. A questo punto è doverosa una parola in più per i rum che hanno reso a questo prodotto una grande propaganda nel terzo mondo intero, ovvero i rum francesi che provengono in modo particolare dalla Martinica. Da pochi decenni le potenze finanziarie hanno attrezzato industrialmente varie distillerie, rendendo i costi di produzione molto bassi e anche creando marche nuove; ma non si può certamente dimenticare che le Colonie francesi sono state fra i pionieri del rum. Assai noto, per esempio, è il rum delle Isole Antille che in questi ultimi anni ha trovato dei nuovi estimatori (specialmente quelli che consumano prevalentemente long drinks aromatici e di una certa gradazione alcolica). In Italia viene importato e distribuito con successo, lo troviamo d’estate nelle località balneari. Altra categoria è quella dei Rum Asiatici, possono classificarsi in questa categoria i distillati che sono forse maggiormente conosciuti con l’appellativo di Arrak. Il loro influsso è stato avvertito nei paesi Scandinavi ed in Olanda. Provengono infatti per lo più da Batavia e dalle zone dell’arcipelago giavanese. Sono, generalmente, di tenue colorazione. Segnatamente secchi quando non siano presentati nelle versioni liquorose comprese fra gli «Swedish punch» di cui sono basilare componente. Anche in questo caso lo troviamo da qualche tempo in Italia: le richieste sono dovute soprattutto al movimento turistico da e per l’Oriente.

Grappa

Grappa, chi è costei? È con questa domanda, di sapore prettamente manzoniano, che si può aprire una piccola inchiesta sulla nascita di questo distillato nobile e purissimo, oggi entrato a far parte del consumo di tutti i giorni, anche nei locali più rinomati, cancellando così il ricordo di essere stato troppe volte accostato a osterie e bettole di infimo ordine. E possiamo dire senza timore di smentita che è uno dei pochi prodotti il cui consumo si è esteso ad ogni settore del pubblico con la sempre più scrupolosa distillazione.

Per avere qualche notizia sulle origini della grappa, bisogna tornare indietro nei secoli, ma le notizie sono fumose, contraddittorie e quindi poco chiare per dire con sufficiente chiarezza quali sono stati gli antesignani della distillazione. Lo stesso significato della parola araba al-cohol, tradotta da molti esperti col significato di sottile, sta ad indicare qualcosa di misterioso, di intuibile, che sfugge ad ogni logico ragionamento. Facendo quindi un po’ la cronistoria, che forzatamente non può seguire schemi validi, si può dire, innanzitutto, e pare essere la notizia di maggiore fondatezza, che come per qualsiasi attività medievale vi era l’uso di tramandare la stessa di padre in figlio, così è avvenuto anche per il settore dei distillati. Gli Arabi, da antica tradizione medio-orientale furono i primi a portare modifiche ai sistemi allora in uso e a tale proposito G.P. Porta nella sua disquisizione «De distilationibus», edita in Napoli nel 1609, mette in evidenza tali modifiche, e araba è pure la parola al-ambic cioè alambicco.

Se si considera che i mezzi di distillazione erano molto approssimativi ed opera di alchimisti e monaci circondati dal più fitto mistero dei monasteri, si può comprendere come il prodotto fosse sgradevole e sgarbato.

Altri dicono che la grappa sia nata in Toscana circa quattrocento anni fa. Acqua di vite o acqua della vita, secondo le due diverse accezioni etimologiche, essa rivelò immediatamente le sue mirabili virtù terapeutiche tanto che Pietro Andrea Mattioli Sanese, nel suo libro terzo della materia medicale, poteva scrivere: « …custodisce et ripara, notrifisce, difende et prolunga la vita… ». Tuttavia essa poté godere rapido sviluppo altrove. Si dilatò nel nord Italia e diede avvio ad una catena crescente di distilla tori artigiani che trovarono nella grappa un portentoso antidoto alla rigidezza del clima. Altre voci. «La grappa è un vecchissimo prodotto venuto a quanto pare dall’Oriente nel XII secolo e secondo altri conosciuto fin dal 1000 in alcuni conventi italiani. Pare che nelle loro cucine gli antichi monaci lo producessero mentre ricercavano con alambicchi gli elisir medicamentosi », Infine, per quanto riguarda il nome grappa ecco che cosa scrive il G. Gozzi in un suo attento studio: «C’è qualche nesso fra il monte Grappa e la parola veneta graspa italianizzata appunto in grappa? Una felice coincidenza, qualcuno dice. Se è facile risalire alle origini della parola graspa che deriva da «graspia», cioè raspo (e si identifica non solo con questo, ma con tutto quanto rimane nei tini tolto il mosto, ed a cui si usava aggiungere un certo quantitativo di acqua per ottenerne una specie di bevanda acidula a gradazione alcolica minima, non più di due o tre gradi, chiamata «vin piccolo», oppure, omonimamente anche «graspia», usata come dissetante nelle stagioni più calde, delle messi, o quando il vino cominciava a mancare, visto che ai contadini, tolta la parte del padrone e degli intendenti esosi, ne restava abbastanza poco), è più difficile stabilire – continua il Gozzi – perché il gran monte sovrastante Bassano, fosse chiamato il Grappa, Necessariamente le osservazioni letterarie e storiche hanno influito sull’affermazione di questo classico prodotto non solamente nel nostro Paese ma anche all’estero.

Amari e liquori

Sotto questa voce abbiamo voluto raggruppare parte della innumerevole schiera dei «liquori» così tradizionalmente definiti, cioè quelli ottenuti dalla miscelazione e macerazione di essenze, aromi, acquaviti, alcool, sciroppi, erbe, radici ecc. Ci troviamo cioè di fronte a una vasta gamma di prodotti tipici di ogni paese del mondo e che notoriamente caratterizzano epoche, consuetudini ecc. Gli italiani, poi, sono stati dei precursori in questo settore. Per esempio, Pierre Andrieu, uno dei più autorevoli e documentati giornalisti gastronomi francesi, rievoca in alcuni suoi scritti come gli italiani, venuti in quella terra al seguito di Caterina de’ Medici, nel XVI secolo, introdussero l’uso delle misture di liquori. « Ci vorrebbe un volume enorme per parlare dei liquori, scrive l’Andrieu.

Grazie ai fiorentini della Corte, si estese l’uso delle ciliege sciroppate, dei ratafià. Ut rata fiat (che i patti siano, avvengano), dicevano, sembra, i funzionari ministeriali dell’epoca, brindando con qualche liquore dopo la firma di atti e accordi. Nel 1604, il ministro Sully constatò che fra le spese voluttuarie dei francesi bisognava annoverare in primo luogo i festini e i liquori. Nella « Vie de Paris sous Louis XII » Louis Batiffol ha scritto: «Per lungo tempo non si è bevuto, in Francia, come liquore, che del moscato di Spagna, dell’ippocrasso (una specie di vin brulé), dell’idromele. Quando i fabbricanti di aceto si misero a distillare l’acquavite, ebbero l’idea di vendere al dettaglio delle ciliege conservate in acquavite e servite in piccoli bicchieri o tazzine. L’acquavite, ammorbidita dallo zucchero e dal frutto, si chiamava allora l’eau clairette », Gli italiani venuti nel XVI secolo al seguito di Caterina de’ Medici, impararono a mettere, al posto delle ciliege, dei limoni, arance, fragole, ribes, lamponi, pesche, albicocche e apparvero allora le prime acque d’arancia, di lampone, ribes ecc. Il commercio di questi liquori rimase libero e rimarrà tale fino a Luigi XIV, il re Sole, che costituì la confraternita dei limonadiers, i fabbricanti di limonate, alla lettera, riunendo li a fianco dei distillatori di acquavite nel 1676. «Salutiamo quindi in Caterina de’ Medici» prosegue l’Andrieu, la presentatrice dei primi liquori ufficiali in Francia, nonché dei cocktails. E non dispiaccia, a proposito di cocktails, a coloro che li credono americani, sapere che siamo stati noi a farne dono agli inglesi e quindi agli americani. Il liquore e il cocktail, dunque, è di origine italiana, ed era detto, alla corte di Francia, mélange de liqueurs, mistura di liquori. Dalla Francia all’Inghilterra, oltremanica, il passo è stato breve, poi gli inglesi l’hanno portato nelle loro colonie, divenute l’America di oggi. Dalla quale ci è ritornato, in abito nuovo, come un certo numero di nostri sport del secolo passato, che ci sono stati restituiti con nomi anglicìzzati.» Andrieu si riferisce ovviamente agli Apricot Brandy, agli Orange e Cherry Brandy, e così via che non erano appunto altro che i liquori all’albicocca, all’arancio e alla ciliegia. Eccoci dunque ai liquori, a quei prodotti che normalmente nei bar troviamo esposti in lunghe file e che in casa – almeno in tre o quattro esemplari – non mancano mai. Le caratteristiche che diamo di questi prodotti sono succinte e nello stesso tempo esaurienti per il loro uso sia come bevanda liscia, sia come ngrediente per i cocktails o long drinks. La vasta gamma dei liquori in circolazione permette in tal modo al degustatore di scegliere secondo preferenze e situazioni senza incorrere nel pericolo di sbagliare nel servire o di essere oggetto di critiche da parte di qualche intenditore.

Armagnac

Questa parola evoca mille suggestioni storiche, geografiche e perché no, gastronomiche. Un ambiente pittoresco, turisticamente pregevole, una gastronomia raffinata e certo insuperabile da quelle parti. Il pensiero corre a Nérac, dove Margherita d’Angoulème, sorella di Francesco I, nonna di Enrico IV, installò la sua corte regale, conferendo a questa provincia francese grande splendore e alta civiltà. E poi, lungo la china della memoria ricordiamo Montaigne, Bousset, Charles de Batz (chi è costui? Ma è l’indimenticabile d’Artagnan, moschettiere del re), e tanti altri rappresentano il patrimonio storico ed intellettuale di Armagnac. Ma non è tutto qui: la storia reclama certo i suoi diritti prioritari, la cultura le sue indiscusse ragioni di scelta. C’è però dell’altro, e come. Agli amanti della natura questa deliziosa regione offre lunghe, idilliache passeggiate, ai romantici e solitari pescatori Dozzine di rive pescose, ai gourmets specializzati (ed anche ai semplici buongustai) una rinomata tappa per assaporare pasticci di fegato, trote, palombi ecc.; ai cultori di musica concerti d’organo nella cattedrale di Auch, ai turisti che collezionano souvenirs il piacere di scoprire le mille preziosità di un artigianato di classe, oppure, se volete, il contatto vivo con il paziente lavoro dei vignaiuoli; a tutti, indistintamente, il piacere di gustare la famosa acquavite, l’Armagnac appunto.

Acquavite prestigio sa e ce lo spiega Armand de Pesquidoux, dicendo, tra l’altro, che dal XIV secolo l’Armagnac risana l’uomo: distillato da un vino nato da ceppi nutriti da una terra riscaldata da un sole ardente, è zuccherato, vellutato e caldo quasi un concentrato delle ottime vigne di cui onora il nome nel mondo, immune dai laboriosi travagli dei trasporti per via terrena o per via mare, conservando intatto lo squisito sapore e la limpidezza che la caratterizzano e la fanno apprezzare in modo particolare da chi se ne intende. Non tutte le terre della Guascogna sono adatte a produrre quella che il Pesquidoux non esita a definire « la essence divine» aggiungendo che soltanto dal Basso-Armagnac, dall’Alto-Armagnac e da Ténarèze, da queste zone nasce il vero, «l’insostituibile Armagnac che ha conquistato il mondo». Naturalmente non è tutto semplice, non è opera di magia, bisogna saper lavorare bene il vigneto, con amore e passione, conoscere a perfezione l’arte della distillazione, arte che è allo stesso tempo una vocazione innata, che i distillatori d’acquavite si trasmettono per generazioni, come per gli altri casi, da padre in figlio. Ogni anno, puntualmente, essi vengono, d’inverno, a compiere il loro rito di “stregoni” prestigiosi. Riscaldato da un fuoco che scoppietta e non si spegne mai, l’alambicco, con una specie di ronzio ovattato, divora le botti di vino che affluiscono continuamente.

La notte, lo spettacolo è meraviglioso e suggestivo, quasi solenne nel silenzio, Il distillatore sorveglia, immobile, il getto fine e tiepido dell’acquavite, riempiendo un fusto di quercia scelto con grande cura. E infatti, terra, ceppi di vite, distillazione, botti, hanno uguale importanza nella lavorazione di questo prodotto. E così, di stagione in stagione, l’Armagnac invecchiando migliora il gusto, brunisce il suo colore, esalta il suo profumo. Da questa prima esposizione sappiamo già qualche cosa sull’ Armagnac che, come è noto, va servito dopo aver mangiato. I Celti ci hanno tramandato la tecnica delle botti indispensabili all’invecchiamento, i Romani hanno introdotto la vigna e insegnato la coltivazione delle viti e, attraverso la Spagna, i Mori hanno rivelato i segreti della distillazione. Tutto bene sin qui, ma sono stati i Guasconi ad amalgamare sapientemente queste tecniche così diverse e dapprima un po’ empiriche, migliorandole pazientemente di generazione in generazione, dal 1400 in avanti (negli archivi dipartimentali dell’Alta Garonna si parla già di un distillatore di acquavite nel 1411) sino alla perfezione tecnica dei giorni nostri. All’origine l’Armagnac era considerato un prodotto un po’ misterioso al quale si attribuivano virtù terapeutiche, quasi un prodotto farmaceutico. Aygo de bit, Aygordènt, eau-de-vie d’Armagnac, sono sfumature nei dialetti guasconi per definire lo stesso prodotto nei tempi.

Cognac

È l’acquavite francese, maturata ed invecchiata, che si ottiene dalla distillazione del vino. Tutta la sua bontà, il suo profumo, da cui dipende, come è noto, il suo valore, le vengono essenzialmente dalla qualità dei vini distillati, dal modo seguito nella distillazione, dalla stagionatura e dalla qualità dei recipienti in cui essa avviene. Il cognac giovane contiene quantità assai variabili di alcool (dal 50 al 65 per cento); con l’età va diminuendo di forza. È colorato in giallognolo dalle sostanze tanniche del legno delle botti in cui è fatto invecchiare. Il legno ha molta importanza sulla qualità del cognac col quale viene a contatto e nella Charente (zona «madre» della produzione delle uve adatte a creare i migliori cognac) è specialmente ricercato il legno di quercia del Limousin. La Charente, come abbiamo detto è la patria del cognac, è una piccola zona sud-occidentale della Francia che ha per capitale la città di Cognac e deve il nome al fiume Charente che l’attraversa. I vigneti coprono una superficie di circa 72 mila ettari che si estendono anche nei dipartimenti della Charente-Maritime e in due piccole zone in Dordogna e nelle Deux Sèvres.

Questa regione dove nasce l’autentico cognac è stata determinata dal Governo francese con un decreto del 10 maggio 1909 e per comprendere quale importanza i francesi attribuiscono alla produzione di questa prelibata bevanda basterà ricordare che essi riuscirono a inserire questa legge nei capitolati del Trattato di Versailles che pose fine alla guerra del 1914-1918. È appunto in base a questa inclusione che nella maggioranza dei Paesi del mondo l’appellativo di cognac viene riservato al distillato di vino prodotto in quella piccola regione francese (il riconoscimento in Italia avvenne nel 1948). Il cognac dunque nasce in questa piccola regione e trova la sua origine in un vino bianco ottenuto da diverse qualità di uva bianca mescolate secondo formule studiate e, il più delle volte, segrete. La base è costituita dalla qualità chiamata «Saint-Emilion» che ricorda in un certo qual senso il nostro Trebbiano. La distillazione comincia fin dai primi giorni dell’anno con vino delle vendemmie dell’autunno precedente. Vi sono, beninteso, delle sensibili differenze tra i cognac ottenuti dai vini provenienti da zone diverse dalle due suddette regioni. Il migliore alcool è quello ottenuto con le uve coltivate intorno alla città di Cognac.

Questo prodotto è classificato in tre categorie, con un ordine decrescentedal punto di vista della qualità e del valore commerciale: Grande Champagne, Petite Champagne (che nulla hanno a che vedere con il vino champagne, ma si riferiscono al terreno, campagna nel vero senso della parola) e Borderies. Il cognac che viene prodotto con uva delle zone meno qualificate e meno apprezzate, quelle a occidente della regione, in terreni in prossimità del mare e che sono ancora coperte da foreste, ha una scala propria di valori: Fins Bois, Bons Bois e Bois Eloignés (o Bois à terroir, o Bois ordinaires o le Bois communs). La quantità di vino, prodotta nella regione, ammonta all’incirca a due milioni e mezzo di ettolitri all’anno.
Per il cognac come per la maggior parte delle bevande alcoliche distillate, specialmente quelle di maggior fattura, il problema dell’invecchiamento è fondamentale. Ma prima di giungere a questa fase della produzione del cognac facciamo un salto nel settore della distillazione. La prima distillazione dura circa otto ore: sotto l’azione del calore si liberano i vapori del vino che poi, attraversando la serpentina raffreddata ad acqua, condensano nuovamente e ricadono goccia a goccia nel recipiente finale dove si raccoglie lo «spirito ardente», come veniva chiamato dagli antichi, del liquore iniziale. Il che equivale a un terzo circa del volume di vino introdotto all’inizio nel bollitore. Tre distillazioni di primo grado, dicono i tecnici, devono quindi fornire abbastanza «spirito ardente» (cioè brouillis, in termini esatti) da riempire nuovamente il bollitore per il secondo stadio della distillazione che dura molto più tempo e deve essere seguita con attenzione per eliminare il massimo possibile dei sottoprodotti «di testa» (aldeidi e altre sostanze nocive che bollono ad una temperatura inferiore a quella dell’alcool) e di quelli « di coda» (gli alcooli meno volatili, gli acidi). Il distillatore deve decidere con le sue doti personali di gusto e di odorato e con una esperienza tramandata di padre in figlio a che punto tagliare via questa testa e questa coda che pregiudicherebbero la qualità e il sapore del distillato. Il frutto della seconda distillazione è un liquido incolore come l’acqua, ad alta gradazione alcolica (70 per cento), che viene passato attraverso un filtro e quindi messo in fusti di legno, dove rimarrà ad invecchiare per almeno tre anni (ma il periodo può essere molto più lungo come vedremo poi).

Il vero segreto del cognac, oltre a quello fondamentale della natura del suolo e del clima della Charente si nasconde qui, in questo lungo invecchiamento nei barili. Parliamo dunque un po’ di questi barili che tanta importanza hanno nella valorizzazione di un cognac. Sono costruiti in legno di quercia della zona di Limousin (antica provincia francese) tenuto a stagionare all’aria aperta per quattro anni. Questo legno contiene la giusta quantità e qualità di tannino (prodotto vegetale, solubile) richiesto dal cognac. Durante i lunghi anni di riposo avvengono complessi scambi chimici, per cui il legno del recipiente cede al liquore il suo profumo e il suo bel colore caldo e ambrato (ma il colore di per sé non dice nulla sull’invecchiamento di un cognac, poiché dello zucchero bruciato viene spesso usato per conferire al liquore un’ombra più scura). L’invecchiamento, dunque, avviene solo nei barili di quercia e non nelle bottiglie come in tanti casi si crede.